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Bestiario narnese

Spunti e riflessioni sul rapporto tra Narni e mondo animale nel Medioevo.

Partiamo da un dato di fatto: per l’uomo medievale l’unicorno ha lo stesso valore e la stessa credibilità del cane di casa. A noi, uomini e donne della modernità, sembrerà strano, ma per un lungo periodo (diciamo dall’antichità classica all’Illuminismo, a grandi linee..) il confine tra reale ed irreale nel mondo animale è piuttosto labile.

La possibilità che nelle favolose terre di “Prete Gianni” esistano unicorni, sirene, grifoni è ritenuta plausibile da chi vive la propria vita all’interno delle mura civiche, e che – al massimo – ascolta le storie narrate da viaggiatori e dai pellegrini che tornano con le loro ”mirabilia” dalla Terra Santa.

Non a caso “Il Milione” di Marco Polo viene spesso letto alla stregua di una enciclopedia veritiera  dai cittadini stanziali all’avida ricerca di novità provenienti da quei mondi lontani. Il viaggiatore Veneziano non li delude: a Giava vede alcuni rinoceronti. Si tratta di animali che lui non ha mai visto, salvo che, per analogia con altri animali noti, ne distingue il corpo, le quattro zampe, e il corno.

Siccome la sua cultura gli mette a disposizione la nozione di unicorno, come appunto di quadrupede con un corno sul muso, egli designa quegli animali come unicorni. Poi però, siccome è cronista onesto e puntiglioso, si affretta a dirci che questi unicorni sono abbastanza strani, dato che non sono bianchi e snelli ma hanno “pelo di bufali e piedi come leonfanti”, il corno è nero e sgraziato, la lingua spinosa, la testa simile a quella di un cinghiale: Ella è molto laida bestia a vedere: Non è, come si dice di qua, ch’ella si lasci prendere alla pulcella, ma è il contrario.” (Milione 143 – cit. da Umberto Eco).

Il mondo animale medievale si muove insomma tra questi poli opposti: quello della vicinanza, della quotidianità, per cui l’animale è parte integrante del sistema domestico e familiare, della stessa economia cittadina (per cui le strade in terra battuta delle città sono popolate di asini, galline, cavalli, mucche e maiali) e quello ideale, dove l’unicorno ed il grifone (non caso simbolo di Narni) viaggiano a braccetto appena fuori la  porta principale della città, oltre le mura, verso quei campi arati in cui si muovono i contadini rappresentati nell’allegoria del Buon Governo del Lorenzetti.

In città un posto speciale lo occupano i cosiddetti “porcelli di S. Antonio abate”, maiali legati al culto del Santo che sono liberi di scorrazzare tra vicoli e piazze senza timore di essere trafitti e trasformati in porchetta, uno status sociale che li pone quasi al livello delle vacche sacre in India!

La loro “intangibilità” è legata alla tradizione del Santo e dei suoi discepoli (i frati Antonini) che proteggono il popolo dal temutissimo herpes zoster, o fuoco di S. Antonio, creando ospedali a ridosso delle mura civiche, al fine di prendersi cura dei malati di questa – e successivamente anche di altre malattie contagiose.

I maiali rappresentano  originariamente proprio il primo sostentamento dei frati, e devono portare al collo una campanella per distinguerli dagli altri porci di città, che ovviamente non godranno della stessa protezione.

La loro fortuna passa ben presto anche nell’iconografia del Santo, il quale  verrà sempre  più spesso rappresentato con il maialino ai suoi piedi, come dimostrano molti affreschi medievali anche in Umbria, fino a far assurgere il Santo a protettore degli animali “tout-court”.

Nella Narni medievale gli Statuti riservano un capitolo speciale proprio a questi maiali: nel libro III° al capitolo 150 si legge infatti: “…considerando che la natura dei porci è di scavare, affinché essi non devastino vie e piazze, stabiliamo che il responsabile dei maiali di S. Antonio sia tenuto a mettere a questi un anello alle narici, e se qualche maiale sarà trovato senza anello, il responsabile sia punito con 20 soldi cortonesi. E di sopra quanto predetto, che il sig. Vicario trovi i colpevoli e li facia punire, e prenda i suddetti porci, e se entro due giorni non trovasse di chi fosse il porco lo faccia vendere..

Il maiale è sicuramente l’animale più utile e completo per l’economia della civitas medievale: quelli di S.Antonio fungono da “spazzini” delle strade, mangiando gli scarti e l’immondizia dei mercati, ma rappresentano – qui come un po’ in tutta l’Umbria – anche l’alimento principale delle famiglie allargate, per cui l’uccisione e la macellazione del maiale a Dicembre diventa un happening che coinvolge tutta la “vicinanza”, il Terziere, o la Parrocchia, ognuno con i suoi compiti e mansioni.

La presenza di una corporazione di macellai d’altronde è ben documentata anche nella toponomastica, per cui la stessa Via Marcellina richiama alla mente proprio il marcellus, ovvero il nome tardo latino del maiale, a testimonianza di botteghe di macelleria in zona.

Ancora gli Statuti comunali del 1371 regolano il mercato e la vendita delle carni di ogni tipo (dai maiali ai bovini, a varie tipologie di volatili che oggi noi escluderemmo da una dieta ideale..) ordinando la pulizia costante dei banchi e delle botteghe, per cui il Vicario doveva mandare i suoi notai a verificare tali condizioni igieniche due volte a settimana.

Le carni di bassa macellazione potevano essere vendute ma solo fuori porta; in città i banchi dove si vendevano le carni animali erano sempre sotto osservazione, anche per evitare che i macellai gonfiassero le carcasse appese ai ganci al fine di aumentarne il peso, mentre d’estate la vendita all’aperto di tale carne veniva limitata per evitare il fetore, e concessa solo di domenica e nei giorni festivi.

Fin qui il rapporto tra narnesi ed animali da mercato (per lo più morti quindi, sotto forma di carne) ma cosa sappiamo del rapporto tra uomo ed animale vivo? Le cronache – e la letteratura – ci testimoniano dello stretto rapporto tra uomo e cavallo ad esempio, per cui la caccia  (alta, nobile, come la falconeria di cui fu maestro Federico II, o bassa, spesso di frodo esercitata per pura sopravvivenza…) vede il connubio cacciatore – cavallo al centro dell’azione. Una sinergia utilitaristica che spesso si trasforma in vero affetto.

Se è vero che tutti gli animali sono sottoposti all’uomo per volere divino, è altrettanto vero che nemmeno gli animali possono essere considerati tutti sullo stesso piano. Secondo Giordano Ruffo, nobile addetto alle scuderie di Federico II e autore del “De Medicina Equorum”, un vero e proprio trattato di veterinaria, il cavallo rappresenta il più nobile tra tutti gli animali, perché “attraverso quello i principi, i magnati e i cavalieri possono essere distinti dai minores”. Non stupisce, perciò, che i trattati relativi alla cura degli animali riguardino principalmente questo vero e proprio status symbol del tempo.

Altra coppia indissolubile è quella rappresentata tra uomo e cane, che vanta già una lunga tradizione: basti pensare all’affetto del cane Argo verso Ulisse, ed alle tante fabulae che sorgono dalla cultura classica, laddove il cane è exemplum di fedeltà ed amore incondizionato. Un rapporto che sopravvive anche nel medioevo, e che si trasforma, se vogliamo, anche grazie all’azione del santo più ambientalista: il nostro conterraneo  San Francesco, che ammansendo il lupo lo  riporta ad una dimensione domestica, affiancandolo ad altri cani che già popolano le case dell’Umbria.

Gli Statuti narnesi dedicano particolare attenzione al rapporto tra  uomo ed animale, un’attenzione molto “moderna” che non ci attenderemmo da un mondo così violento, in cui la tortura e la pena capitale era spesso la regola e non l’eccezione. Eppure i legislatori sono consapevoli del fatto che gli animali domestici rappresentano una ricchezza per la stessa comunità, e chiunque li avesse  colpiti solo per collera veniva punito duramente.

Il capitolo 4 del III° libro recita infatti: “…se qualcuno abbia percosso qualche animale con armi da offesa, cioè coltello, spada e simili, e ne sia uscito sangue con conseguente morte, se bove, vacca, asino o somaro, paghi 15 soldi alla Camera e risarcisca il danneggiato. Se invero sia capra, becco, castro, cane o scrofa paghi 100 soldi e risarcisca  il danno.(…) Se abbia percosso un cavallo, un mulo o bestia da soma paghi 24 libbre e risarcisca il  danno. Se la morte non ne sia conseguita, ma non fossero più buoni a nulla, risarcisca comunque come detto..”.

Tali pene non i applicavano invece ai cani nel contado in quanto  – si suppone – questi erano molto numerosi fuori delle mura civiche.

Come si vede anche dai nostri Statuti quindi, l’utilità dell’animale è in primis la misura del suo valore puramente economico. All’interno di un’economia domestica  che vive anche di piccoli allevamenti privati, magari negli orti di vicinanza, la presenza degli animali è una costante, ed il valore è direttamente proporzionale alla loro utilità per costruire ricchezza familiare.

Un discorso a parte merita il gatto: l’animale più enigmatico e polisemico del medioevo, attributo immancabile delle streghe e del mondo demoniaco, ma invocato e ricercato per la sua abilità di cacciare i topi, che all’epoca erano untori portatori di peste, e quindi proprio per questo motivo una necessità nelle città sporche ed a rischio epidemico; i felini non hanno però goduto di buona fama nemmeno grazie a questa loro peculiarità.

Una delle ragioni forse è da ricercarsi nell’amore che invece lega il mondo islamico ed orientale in generale (basti pensare alla loro sacralità in Egitto) al gatto: secondo una leggenda popolare il profeta Maometto aveva costantemente al suo fianco una gatta chiamata Muezza, a cui voleva molto bene.

Muezza un giorno si addormentò sulla veste di Maometto e, giunta l’ora della preghiera, Maometto indeciso sul da farsi, per non svegliare la gatta, tagliò il pezzo di veste dove essa dormiva. Al ritorno di Maometto la gatta gli andò incontro e per ringraziarlo gli fece tante fusa.

Egli, lieto e contento di tale accoglienza, elargì doni per Muezza e i gatti a venire.

Ecco quindi che in un’Europa medievale, dove le Crociate alla riconquista della Terra Santa sono l’humus dell’epos cavalleresco, l’uomo tende a dimenticare l’eredità culturale che l’Islam ha invece lasciato in Italia (dai califfati in Sicilia all’attenzione di Federico II, dalla scoperta dei numeri primi alla scienza della navigazione) e rifiuta ogni ideale religioso che possa vagamente ricordare il mondo arabo, ormai relegato a minaccia “saracena” da rifiutare in toto.

Eppure una leggenda vuole che la Madonna stessa avesse un gatto, forse un soriano, perché nel manto di quest’ultimo vi sono striature a forma di M, come Maria. Il gatto, del resto, compare in molte opere d’arte a soggetto religioso e con diversi significati. Nel Medioevo il gatto fu spesso cacciato e ucciso perché associato alla malignità e al demoniaco, ma dal XIV secolo, dopo la peste nera diffusa in Europa attraverso le pulci dei topi, il gatto iniziò essere rivalutato.

Anche in questo caso quindi, il rapporto tra uomo ed animale domestico supera le ideologie e le superstizioni per sostanziarsi nella pura utilità, una costante della vita quotidiana nel medioevo.

Fabio Ronci

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