Dalle verdure spontanee agli orti comuni, vi siete mai chiesti come si evolve la cultura di erbe e spezie nell’Umbria e in generale nell’Italia medievale.
Il paesaggio urbano medievale
Il paesaggio urbano medievale, così’ come ci è testimoniato dall’architettura e dall’arte (basti pensare alla celebre Allegoria del Buon Governo del Lorenzetti a Siena) si presenta come un alternarsi continuo di chiusure ed aperture: dalle mura civiche – che racchiudono la vita urbana, la definiscono e la limitano – ai campi, fino al bosco il passo è breve.
Le Porte d’accesso alla città murata segnano anche il passaggio tra la natura “salvatica” ed inospitale (il bosco, così come ci è narrato anche nei racconti e nelle favole…) e la sua domesticazione, tramite il lavoro dell’uomo, e portano alla comparsa degli orti, dei campi arati, che si estendono fino alle mura civiche.
Questo passaggio non è indolore, spesso è il risultato di espropriazioni, di guerre e di carestie, di un’urbanizzazione “forzata” per cui la città, il Comune medievale, tende a rinchiudersi dietro la sicurezza delle mura e dei castelli, delle torri e dei camminamenti di ronda, da cui la milizia cittadina osserva e controlla l’esterno, mentre il paesaggio rurale si modifica, si stringe, ed a stento sopravvive.
Nei periodi di carestia, durante le frequenti guerre, nei casi in cui è difficile muoversi da città a città, il Comune deve sopravvivere all’interno delle proprie mura, così come avveniva nei castelli dei Signori feudatari, ed allora l’acqua (il pozzo) ed il cibo sono necessità che costringono la popolazione ad inventarsi nuove strategie di sopravvivenza.
Essendo difficile uscire dalle proprie mura, in questi casi un’importanza cruciale la assumono gli orti ed i campi coltivati in città, ed allora ecco nascere piccoli “orti urbani”, un sorta di micro-agricoltura gestita da gruppi di famiglie – o Parrocchie, quartieri – che coltivano piccoli appezzamenti di terra per i bisogni comuni.
Gli animali (maiali, ovini, mucche ed animali da cortile) possono muoversi spesso liberamente in città, ma l’approvvigionamento di carne per tutti richiede spazi più aperti di quelli forniti da orti e giardini (dove a malapena si possono tenere oche e galline..), quindi le verdure rappresentano spesso gran parte del sostentamento pubblico.
A tavola fra tradizione e contaminazioni “straniere”
La cucina e l’alimentazione si adeguano a tali bisogni, ed allora nascono tradizioni culinarie ricche di contaminazioni tra carne e verdura, e l’Umbria gioca una parte importante in questa mutazione.
La tradizione culinaria in Umbria viaggia infatti lungo due percorsi abbastanza definiti: quello vegetale e quello animale, che spesso si incontrano e si contaminano a vicenda. L’Umbria è può infatti essere definita come lo spartiacque geografico tra la “Romania” e la “Longobardia”, con una lunga storia di sovrapposizioni ed incroci politici tra lo Stato della Chiesa ed il ducato Longobardo (si pensi a Spoleto), ed entrambe le dominazioni hanno contribuito a formare una sorta di koinè alimentare: dall’uso dei cereali, con i diversi tipi di panificazione, allo sfruttamento del maiale (per cui Norcia diventa addirittura una “capitale” culturale della lavorazione), questi due mondi si incontrano sulle nostre tavole da secoli.
Il maiale, in ogni sua declinazione (dall’arrosto ai salumi) gioca un ruolo importante nelle nostre cucine: la lavorazione della sua carne è da tempo immemorabile un momento di unione, di convivio, di “pacificazione” tra famiglie e vicinanze addirittura, ed ogni operazione relativa alla sua preparazione coinvolge interi gruppi familiari sia in campagna che nelle piccole città.
La carne però è spesso un lusso, e durante i periodi di carestia – dal medioevo al 19° secolo – il loro uso è fortemente limitato, quindi alla base dell’alimentazione “di massa” ci sono le verdure, le erbe, i frutti della terra che vengono cucinati e serviti in ogni combinazione possibile.
Dalle “verdure basse” all’erba della “Provvidenza”, l’importanza dei vegetali
Le erbe spontanee e le verdure selvatiche sono spesso considerate in epoca medievale un dono divino.
L’importanza delle “verdure basse”, quelle che ogni cittadino può coltivare nel proprio orto, è ancora fondamentale per la nostra cucina, e ben prima dell’arrivo dei frutti esotici e del pomodoro – che arricchiranno i nostri giardini solo a partire dal 17° secolo – le erbe naturali entrano nella nostra cultura popolare, come sinonimo di cibo povero ma essenziale, per cui, quando dalle nostre parti si fa riferimento al cibo semplice, si dice “mangiare pane e cicoria” !
Alcune erbe di campo sono da sempre alla base della cucina umbra, e la conoscenza di un territorio e delle sue piante sono fondamentali per trasmettere cultura locale, prima a livello orale, quindi in forma scritta, nelle ricette casalinghe, ed infine nei ricettari.
Certe erbe non hanno nemmeno un nome definito, vengono infatti definite col termine “misticanza” – che indica anche un’insalata mista – eppure le donne e gli uomini della nostra terra le conoscono dall’alba dei tempi, mentre spesso i botanici e gli scienziati ne ignorano l’uso e la stessa esistenza. in questo senso la cultura popolare le ha veicolate verso il presente, senza bisogno di definizioni ufficiali.
Nei periodi di magra, o in pieno inverno, le erbe prendono il posto della carne, o – se possibile – la accompagnano abbondantemente per supplire alla carenza di calorie; l’orto privato, domestico, o vicinale gioca in questo senso un ruolo fondamentale per l’alimentazione del gruppo-famiglia; la stessa geografia urbana delle nostre città (almeno fino al primo ‘900) è caratterizzata da un continuo alternarsi di mura ed orti, di giardini privati e semplici passaggi naturali verso le porte della città.
La tradizione delle passeggiate “extra moenia” a caccia di cicoria, raponzoli, valeriana, asparagi ed altre erbe è sopravvissuta fino ai giorni nostri, e soprattutto nei piccoli centri medievali non è raro imbattersi in anziani signori che si calano in fossi e percorrono strade poco battute durante le ore più calde del giorno, alla ricerca delle preziose erbe.
Si dice “erbe di campo” e si pensa ai fossi, ai prati, alla vegetazione spontanea che arricchisce le tavole, per preparare insalate dai gusti diversi, più amare di quelle coltivate e dai nomi curiosi, popolari (visto che – come abbiamo detto – non ne hanno di scientifici) che richiamano alla memoria il loro “uso” o la forma particolare: bietole, puntarelle, caccialepri, raponzoli, che si sposano all’aceto bollito, all’aglio, alla salsa di acciughe ed aceto, seguendo anch’esse quella “nobilitazione” tanto cara ai cuochi di corte…
Nel Medioevo i monaci chiamavano queste erbe “Provvidenza”, legando la loro comparsa alla benevolenza di Dio, un alimento che non necessita di lavoro quindi, un dono inatteso della terra, e mentre la regola benedettina spinge al lavoro nei campi (ora et labora) gli eremiti preferiscono vivere di elemosina, ed amano di conseguenza questo cibo “divino”.
La maggior parte degli uomini (in campagna, e nelle nuove città nel medioevo) cercano però una sintesi, e così coltivano il campo, zappano, arano, ma poi accolgono con gioia anche queste erbe spontanee.
Bizzarre sperimentazioni Medievali, dall’orto Mistico, al pane senza farina.
Gli orti nel medioevo sono anche straordinari luoghi di sperimentazione, dove i saperi agronomici e le pratiche di coltivazione si incrociano, e danno vita a veri e propri percorsi ideali e materiali. L’orto fornisce il cibo (erbe, frutta, verdura e spesso cereali per preparare il pane) ed assolve così alla sua funzione primaria, ma allo stesso tempo ripropone uno spazio ideale, mistico (si pensi ai giardini zen della tradizione orientale), dove il credente può addirittura ripercorrere i sentieri dell’eden, circondato da piante, colori ed odori che richiamano una spiritualità ascetica.
Le piante selvatiche, di campo, vengono lentamente addomesticate, e così i finocchi ed i cardi vengono addolciti dagli orticoltori, che li trapiantano nei giardini strappandoli alla natura “salvatica” del bosco, del campo appunto.
Nei secoli le erbe selvatiche hanno persino contribuito alla ricerca affannosa del pane, il vero elemento culturale italiano, tanto importante nella nostra storia da aver contaminato il linguaggio, per cui l’italiano è l’unica lingua che prevede l’espressione “pane e companatico” da cui si desume che l’alimento centrale è il pane, il resto accompagna il pane. Questa centralità del pane (insieme a quella dell’olio) è – in parte – retaggio del cristianesimo, per cui la stessa transustanziazione vede il corpo di Cristo farsi pane per noi, ed il pane quotidiano è l’elemento portante addirittura del Padre Nostro.
Nei tempi di carestia però, soprattutto nell’alto Medioevo e durante i lunghi periodi bellici, i cereali alti (grano) e quelli bassi (spelta, miglio..) scompaiono dalla tavola, ed allora non sono rari i casi di improbabili tentativi di panificazione con erbe di campo, persino con erbacce, che vengono macinate e trasformate in pagnotte, dal dubbio potere nutritivo e sostanzialmente immangiabili, se non nocive per l’uomo. L’unico succedaneo del grano (naturalmente prima della comparsa del mais in Europa) che ha avuto fortuna è la castagna: cotta, sminuzzata, tritata e trasformata in farina, con essa si crea quello che forse è il primo dolce nazionale: il castagnaccio. Non è un caso che il castagno sia anche chiamato “albero del pane” e la sua presenza all’interno degli orti vicinali o in quelli privati diventa nei secoli una costante anche in Umbria, accanto all’ulivo.

foto: Moreno Faina presso Ambienti Medievali di Narni
Fabio Ronci