Maledetti doni

Nella Narni Medievale erano vietate le strenne di capodanno, mance in denaro considerate doni maledetti.

Perché una bizzarra norma vietava lo scambio di doni in denaro?

Scorrendo gli Statuti narnesi del 1371, non è insolito imbattersi in qualche norma che ad un esame superficiale, può sembrare bizzarra se non addirittura inesplicabile. Questo è il caso di una disposizione contenuta nel III Libro “Super maleficijs & Criminalibus causis”: Capitolo LXXXVIII: “Quod nulla persona det manciam de pecunia alicui in anno novo, seu kalendis mensis januarij”.    

Perché i legislatori narnesi della fine del XIV secolo si preoccuparono di condannare, assimilandolo ad un crimine, un gesto che ai nostri occhi può sembrare del tutto innocuo? Nella versione italiana degli Statuti, il nostro concittadino Raffaello Bartolucci, tradusse così questa norma: “Inoltre stabiliamo che nel nuovo anno, cioè nel giorno delle calende del mese di gennaio, nessuna persona dia la mancia in denaro a qualche ragazzo o ad altra persona. E nessuna persona al tempo del carnevale, da 15 giorni prima della fine del carnevale, dia alla figlia o nipote o pronipote o sorella o ad altra persona, la merenda o qualche cibo cotto o crudo. E il trasgressore sia punito per ogni volta in 10 libbre cortonesi e questa pena di fatto sia attribuita e applicata al Comune di Narni, e qualsiasi possa accusare e denunciare il trasgressore e si stia al giuramento del denunciante o dell’accusante, e abbia metà della sanzione, gli si dia credito, e questo capitolo sia annunciato dal banditore”.

Una norma a matrioska

Questa norma statutaria è una sorta di matrioska, nella quale si nascondono temi e problematiche tipiche dell’epoca di riferimento: la festa “mobile” del Capodanno, i riti leciti e proibiti in occasione di particolari festività, ma anche la diffusa tendenza dei legislatori medievali a incoraggiare e remunerare coloro che oggi definiremmo con malcelato disprezzo “delatori”, ai quali veniva dispensata metà della sanzione imposta ai trasgressori. Una storia dentro l’altra che per economia di spazio, non è possibile esaurire in un solo racconto.

Soffermiamoci allora sulla prima parte della disposizione: Item statuimus, quod in anno novo, seu die kalendarum mensis januarij nulla personam det manciam alicui in pecunia peurorum, vel alteri personae.

Il dio Giano e il Capodanno spostato a Gennaio

Il mese di gennaio (Ianuarius per i latini), deve il suo nome a Giano, il dio dei due volti: fine e principio, passato e presente, morte e vita; le Kalendis mensis januarii delle quali si occupa la norma degli Statuti, corrispondono al nostro attuale Capodanno. Nel 1371 dunque, a Narni si era già imposta la pratica di far coincidere l’inizio dell’anno con il primo giorno di gennaio.

La precisazione non è del tutto inutile se si considera che nella seconda metà del Trecento, la data d’inizio anno era ancora difforme in molti Paesi europei e in alcune zone d’Italia, malgrado l’introduzione, nel 46 a.C., del calendario giuliano, che aveva di fatto spostato il Capodanno dal primo marzo al primo di gennaio. Soltanto nel 1691, per volere di Innocenzo XII, la data fu uniformata e adottata in tutti quei Paesi che introdussero il calendario gregoriano.  

Nonostante l’avvento del cristianesimo e la abolizione delle solennità romane con l’editto di Tessalonia del 380 d.C., in tutte le festività ereditate dal passato, sopravvive ancora oggi una forte componente pagana. La Chiesa cattolica fece “sue” le solennità celebrate in onore delle divinità romane, depurandole del significato originario, ma in alcuni casi, non riuscì ad estirparne anche i riti. Tra queste festività, il Capodanno è probabilmente la ricorrenza nella quale la Chiesa si è imposta con maggiore fatica: le usanze pagane sono sopravvissute attraverso i secoli, e se nei Paesi storicamente cattolici hanno nel tempo perduto vigore, in altri si tramandano ancora oggi.  L’ aspetto è piuttosto evidente nella laicissima Francia dove, seppur in maniera minore rispetto al passato, si osserva ancora l’usanza di dare mance a portieri e domestici nel giorno di Capodanno. Questi doni in denaro sono chiamati étrennes, termine che rimanda inequivocabilmente alle strenne romane del primo giorno dell’anno.

L’origine Romana delle strenne e lo scambio dei doni

Le calende per il nuovo anno erano dedicate a Strenia (o Strenua), divinità forse di origine sabina, simbolo di prosperità, salute e buona fortuna, tanto da essere raffigurata con una cornucopia in mano. In quel giorno i Romani, in segno di buon augurio e di purificazione, si scambiavano rami di verbena raccolti nel boschetto sacro dedicato alla dea. La verbena, consacrata alle divinità femminili, al pari dell’alloro era considerata arbor felix. Oltre a questi rami, chiamati strenae dal nome della dea, si offrivano in dono cibi dolci come datteri, miele, noci e fichi secchi, allo scopo di augurare dolcezza nel nuovo anno, ma anche mance in denaro per auspicare ricchezza materiale.
Nel tempo i donativi persero probabilmente il loro significato originario, assumendo la forma di mance offerte a scopo clientelare per ingraziarsi i favori o la fedeltà dei donatari (si pensi agli odierni doni aziendali in occasione del Natale).
Il Capodanno, assorbito dalla religione cristiana nelle celebrazioni post-natalizie, divenne una solennità consacrata dalla Chiesa alla Circoncisione di Gesù, secondo quanto testimoniato dal Vangelo di San Luca (II, 21): “Passati gli otto giorni, in capo ai quali il bambino doveva essere circonciso, gli fu posto il nome di Gesù, com’era stato indicato dall’Angelo, prima che fosse concepito nel grembo di sua madre”. Tuttavia, la ricorrenza della Circoncisione non suscitò mai una particolare attrattiva sul popolo, che continuò a celebrare le calende di gennaio come la Festa del Nuovo anno, con danze, canti, strenne e cortei mascherati.

La Chiesa osteggia lo scambio dei regali, ma i Cristiani conservarono i riti donativi pagani

La partecipazione dei Cristiani alle festività pagane delle Calende di gennaio fu sin da subito condannata dalla Chiesa: già nel II secolo, Tertulliano osservava che queste celebrazioni, insieme ai Saturnalia di dicembre e ai Matronalia   di marzo, erano più occasioni sociali che religiose e venivano seguite per semplice convenzione sociale. Nel 585 ca., il Concilio di Auxerre stabilì che “alle Calende di gennaio non è consentito travestirsi da giovenca o da cervo, come pure seguire il costume diabolico di scambiarsi doni”. D’ altra parte la Chiesa ha lungamente osteggiato lo scambio di regali, dal momento che il cristianesimo è fondato sul massimo dei doni possibili: il sacrificio di Cristo che offrì la sua vita per la salvezza degli uomini. Ancor più, lo scambio reciproco di strenae, era considerato opposto all’idea di carità, cioè del donare disinteressatamente. Agli inizi del VI secolo, San Cesario di Arles ammoniva: “Vi ho detto, non date strenne, ma date ai poveri. Ora mi si obietta: “quando do strenne, a mia volta ne ricevo”. Ma secondo la promessa del Signore, se darete ai poveri riceverete cento volte tanto”.

Alla luce di queste considerazioni, appare evidente che a Narni, territorio del Patrimonio di San Pietro, i legislatori dovettero esprimersi conformemente alle direttive ecclesiastiche.
Il divieto imposto dalla norma degli Statuti, assume maggior chiarezza se si legge un passo di Gaetano Moroni in “Dizionario di erudizione storico ecclesiastica da San Pietro sino ai nostri giorni”: “Il Boccaccio fa dare ad alcuno il buon anno e le buone calende (1) e il Passavanti parla della buona mancia delle calende.

Le strenne, o calende di gennaio, a Roma era un giorno di festa e di licenziosità in onore di Giano e di Strenia, dea dei donativi. La festa era stata istituita da Tazio, re dei Sanniti. Nel primo giorno dell’anno nuovo, il popolo portava un ramo di verbena tolto da un boschetto nei dintorni di Roma e consacrato a Strenia. I rami di verbena erano considerati di buon augurio e in questo giorno ognuno faceva doni agli amici, a clienti, ai padroni, i vassalli ai principi, i gentiluomini agli imperatori. Quantunque i cristiani aborrissero il culto di Giano e di Strenia, tuttavia conservarono i riti dei donativi, i giochi e i banchetti. Diversi Concili condannarono tali abusi e molti zelanti Vescovi procurarono di estirparli, per cui abbiamo molti sermoni contro le feste delle Calende di gennaio. Anzi fu persino comminata la scomunica ai colpevoli, onde la Chiesa fece delle Calende di gennaio un giorno di digiuno e di orazione”.

(1) Boccaccio, Giornata III, n. 8, fa dire a Ferondo:
“di che io priego Iddio, che vi dea il buon anno e le buone calendi, oggi e tuttavia”.

Boccaccio

E’ curioso notare che le parole di Jacopo Passavanti, citate dal Moroni a titolo di buon esempio, furono poi riprese per opposti motivi, nel XVIII secolo da Girolamo Tartarotti il quale, nel tentativo di demolire le credenze intorno alle streghe, spesso alimentate proprio da dotti superstiziosi, le inserì nella sua opera “De congresso notturno delle Lammie”:

l’andar cercando la buona mancia nelle calende, il primo dì dell’anno nuovo, vanità e grave peccato fu creduto anche da Jacopo Passavanti”.

Girolamo Tartarotti

Il giusto prezzo da pagare

La disposizione statutaria presa in esame, rappresenta uno dei tanti esempi della volontà dei legislatori dell’epoca, di utilizzare il diritto per correggere comportamenti e stili di vita privati dei cittadini. L’applicazione dello strumento della multa, che di fatto sanava la disobbedienza, ricalcava il modello religioso di remissione dei peccati “a tariffa”. Se per la Chiesa il prezzo del perdono era spesso rappresentato da una dieta a pane e acqua, per uno o più giorni a seconda della gravità del peccato, il mancato rispetto di una norma comunale era sanzionato con una precisa somma di denaro. Va da sé che questo sistema, apparentemente volto alla moralizzazione dei cittadini, consentiva di rimpinguare abbondantemente le casse comunali, perché andava a sommarsi alle gabelle ordinarie e a tutte quelle multe imposte per reati di tutt’altro genere.

Verrebbe quasi da dire che le strenne di Capodanno, almeno per le casse cittadine, erano in realtà “benedetti doni”.

Mariella Agri